Il disco
solare era alto nel cielo, oscurato in un’eterna eclissi cremisi che tingeva le
nuvole di scarlatto e gettava lunghe ombre sulle facciate dei palazzi in
rovina.
La
ragazza poteva sentire l’asfalto tiepido sotto alle piante dei piedi nudi e, di
tanto in tanto, anche qualche coraggioso ciuffo d’erba che era riuscito a farsi
strada in quella giungla di pietra. Una leggera brezza calda le accarezzava le
spalle e sapeva per certo, nei suoi diciannove anni di vita, di non esseri mai
sentita più in pace con se stessa come in quel momento.
Stava
camminando lungo le vie di una città sconosciuta e dimenticata, dove perfino il
vento e il silenzio si aggiravano con circospezione. La ragazza aveva quasi
paura di aprire la bocca, nel timore di turbare quell’aura di sacrale
abbandono.
Le
finestre degli edifici che l’accompagnavano nel suo cammino erano delle mere
occhiaie vuote, con le porte scardinate e i tetti sul punto di cedere il passo
all’incuria. Oltre le tegole, una bizzarra forma convessa si stagliava contro
il cielo infiammato, simile ad una mandorla ma sormontata da una sottile
struttura che dava l’idea di essere un gigantesco ago ipodermico. Gli occhi
registrarono il tutto ma le gambe si rifiutarono di interrompere la propria
marcia, come accade spesso nei sogni più bizzarri o negli incubi più atroci.
Dopo
quelle che sembrarono ore, la ragazza giunse nei dintorni di una vetrina
sfondata. I segni scuri sull’asfalto e una vecchia automobile ribaltata
sembrarono letteralmente ricordare alla ragazza l’avvenimento che aveva ridotto
la superficie di vetro in brandelli sbeccati. L’automobilista aveva frenato
all’improvviso, perdendo il controllo del mezzo e catapultandolo all’interno
dell’esercizio affollato. Diversi elementi di mobilia erano stati spazzati via nell’urto,
andando a colpire le pareti e gli esercenti con micidiale precisione.
Ora il
veicolo giaceva ancora all’interno del negozio, con l’occupante accartocciato
in un mucchio d’ossa contro il parabrezza curiosamente intatto malgrado l’urto.
Un’insegna al neon, spenta da chissà quanto, annunciava “Torino Mobili”.
Qualcuno
aveva trascinato qualcosa di pesante fuori dalla vetrina in frantumi, lasciando
lunghi solchi nella polvere che, alla luce dell’eclissi eterna, sembravano
brillare di luce propria. La ragazza, immobile e in balia della brezza, seguì i
solchi con lo sguardo fino ad individuare l’oggetto che li aveva causati.
In mezzo
alla strada era stata posizionata una vecchia poltrona della nonna, foderata in
peluche e con braccioli così imbottiti da assomigliare a golosi cannoli alla
crema. Stravaccato sulla poltrona, con fare sornione ed occhi di brace, c’era
un bel ragazzo dai capelli biondi. Esibiva un ampio sorriso a trentadue denti,
così ampio da sembrare innaturale, e la fissava con sagace curiosità.
La
brezza mutò improvvisamente e, proprio mentre la ragazza percepiva per la prima
volta una presenza alle proprie spalle, le giunse odore di bruciato e zolfo.
Riprese
conoscenza urlando e scalciando, con la testa in panne e gli occhi sgranati.
L’uomo
svitò il tappo della borraccia, afferrò un panno moderatamente pulito dalla
bisaccia e lo imbevette d’acqua. Poi, sporgendosi in avanti, ammiccò con il
capo allo straccio e lo porse alla ragazza.
Questa
lo afferrò bruscamente e iniziò a passarselo sul volto, ripulendolo dal sangue
secco e dalla sporcizia che le si erano attaccati addosso quando era caduta a
terra.
L’acqua
era fresca e, ad ogni passata, scopriva le fattezze di quella che aveva tutto
l’aspetto di essere una giovane donna. Labbra sottili e zigomi appena accennati
affiorarono dal sudiciume come relitti dalle onde del mare in tempesta, seguiti
da una fronte ampia e da guance lievemente arrossate. La pelle, rosea come
quella di una bambola di porcellana, risaltava in maniera sorprendente con i
lunghi capelli corvini che le incorniciavano il viso.
Una
volta che ebbe finito con il volto, la ragazza iniziò a ripulire le varie
sezioni dell’armatura, accuratamente ordinate sul pavimento e ricoperte
anch'esse di sozzura.
L’uomo
la fissava, immobile nella sua scocca di cuoio nero e con la maschera da
uomo-uccello ancora calcata sul viso.
Entrambi
erano seduti in prossimità di un bivacco, riscaldati da un tenue fuoco e con
l’enorme caoticità della Galleria a fargli da riparo dal mondo esterno. Dal
lucernario frantumato filtravano raggi rossastri, che andavano a posarsi sul
ciarpame sparso lungo l’ambiente senza tuttavia riuscire ad illuminarlo nella
sua interezza.
«Sai
perché questo luogo veniva chiamato Galleria Alberto Sordi?» «
La
ragazza trasalì leggermente al suono di quella voce inaspettata e fece di tutto
per nascondere la propria sorpresa, rivolgendo un’occhiata disinteressata in
direzione dell’uomo e continuando silenziosamente a ripulire il metallo. Era
rinvenuta con quei vetrini inquietanti che la fissavano e aveva tutta
l’intenzione di procedere con cautela.
La voce
continuò malgrado l’assenza di una risposta, dicendo «Un tempo ci fu un grande
attore di cinema che rispondeva a quel nome e così i nostri avi pensarono di
rendergli omaggio intitolandogli quest’opera architettonica. Sai cos’è, il
cinema?»
Ancora
una volta, risposero solo l’eco e il rumore del vento proveniente dall’esterno.
«Il
cinema era… come posso dire… come un quadro in movimento. Spesso suscitava
emozioni forti come la paura o la tristezza, esperienze originali ed
interessanti, ma altrettanto spesso era solo spazzatura che non trasmetteva
nulla. La gente pagava dei bei soldi per avere il privilegio di poterlo
osservare.»
La
ragazza, con lo sguardo fisso sui vetrini della maschera in cuoio, lasciò
cadere l’ultima sezione dell’armatura ed afferrò la spada. Il panno era ormai
sudicio di sangue nero e di sporcizia, ma riuscì comunque a migliorare le
condizioni dell’arma e a farla brillare di nuovo. Non aveva la più pallida idea
di cosa fossero i soldi o, se è per questo, la paura.
«Vedi,
ora il nome di questo luogo è cambiato. Non viene più chiamato Galleria Alberto
Sordi, ma Galleria delle Ossa. Sai il perché?»
La spada
ritornò silenziosamente nel fodero e venne poggiata con cura di fianco
all'armatura. Le labbra sottili come stiletti restarono immobili.
«La
chiamano Galleria delle Ossa perché un manipolo di miei confratelli, appena
dopo la Tribolazione, cercò di trasformarla in un luogo sicuro, erigendo
barricate di metallo con le automobili e benedicendo le entrate con acqua santa
ed incenso. Per un breve periodo l’idea funzionò e i rituali sacri riuscirono a
tenere lontane le bestie minori, ma il male trovò comunque un modo per passare.
Delle creature simili a quelle che ti hanno fatto quel bel bernoccolo decisero
che ne avevano avuto abbastanza e sciamarono all'interno, uccidendo e mangiando
chiunque gli si parasse davanti.»
L’uomo
prese un tizzone dal fuoco e si alzò in piedi, dirigendosi verso una delle zone
della Galleria in cui i raggi rossi non riuscivano a far breccia nelle tenebre.
La ragazza
non si mosse dal posto e si limitò a seguirlo con lo sguardo, allungando
silenziosamente una mano verso la spada e preparandosi a prendere di sorpresa
quello sconosciuto.
La
fiaccola improvvisata, con il suo lieve alone di luce, riuscì a farsi strada
nel buio e rivelò diversi scheletri incastrati tra i rottami di metallo. Le
ossa sembravano essere state rosicchiate a fondo e molte erano addirittura
spezzate in diversi punti, probabilmente nel tentativo di succhiarne via il
midollo.
L’uomo
allungò una mano e afferrò uno dei tanti teschi che giacevano nella polvere,
sollevandolo in alto come in una pantomima di Shakespeare.
«Queste
persone un tempo erano vive. Camminavano, mangiavano, pensavano come faccio io
ogni giorno ed ora giacciono qui, dimenticate da tutto e tutti. A quest’ora
potevi essere molto più simile a loro che a me, se non fosse stato per il mio
intervento» il teschio tornò con cura alla sua posizione originaria e il becco
da uomo-uccello si voltò di nuovo in direzione della ragazza «ragazzina, perché
ti trovavi nella Galleria delle Ossa, svenuta e in compagnia dei figli del
maligno?»
La voce
rimbombò senza posa tra le pareti e i ruderi, per poi sfumare nel rumore del
vento e nel silenzio. La ragazza continuò a fissare l’uomo in piedi, le sottili
labbra strette come una cerniera che aveva tutta l’aria di non volersi
sbottonare.
I suoi
occhi scuri erano velati da un’aura di intensa sfida e non la smettevano di
trafiggere lo sconosciuto come fossero stati lance.
Ogni
istante sembrò durare un’eternità fino a quando, non appena il becco da
uomo-uccello fece per voltarsi, la ragazza parlò. La sua voce era al contempo
grave e melodiosa, con un tono duro ed aspro che contrastava grandemente con la
figura da cui proveniva, ma incredibilmente adulta per l’età che l’uomo le
aveva attribuito.
«Sono
Caterina da Roma, figlia di padre e madre ignoti. Ero alla ricerca di
un’Offerta da portare in dono al Magistro dell’Isola Tiberina quando quell'orda
di creature è sbucata dal nulla e mi ha tallonata fin dentro questo ossario.
Uno di loro deve avermi lanciato un mattone o un sasso in testa, perché a
quanto pare sono crollata prima ancora di poter amministrare una giusta
punizione a quelle bestie» la ragazza strinse l’impugnatura della spada e,
alzandosi in piedi, la sguainò in un lampo d’acciaio «Fortunatamente c’eri tu
nelle vicinanze… troppo fortunatamente… sei forse un servitore del demonio,
conciato a quel modo?»
L’uomo
sollevò le mani oltre la propria testa nella parodia di un criminale colto sul
fatto e, con la torcia ancora nel pugno, scosse lentamente il capo a destra e a
sinistra. Poteva vedere la propria maschera riflettersi sulla lama mentre
questa veniva puntata nella sua direzione.
«E
allora perché indossi quell’affare sul volto? Solo i criminali e i servitori
del maligno provano gioia nel nascondere il proprio volto al Signore.»
Caterina
iniziò ad avvicinarsi con cautela, tenendo l’arma davanti a se e continuando a
fissare lo sconosciuto con feroce interesse. Era molto più alto di lei di
almeno tutta la testa ed indossava un’armatura di cuoio nero munita di
cappuccio, accessorio che la ragazza aveva solamente visto nei disegni che
illustravano i testi sacri. Mostravano uomini e donne incappucciati mentre
rapivano bambini, si accoppiavano con i demoni e correvano per le strade in
preda ad una nera estasi. Molti di essi erano nudi ed intenti a cibarsi dei
propri simili, sfoggiando ampi sorrisi di giubilo.
«Ora non
parli più? Cosa stai facendo sotto quel cappuccio nero, preghi che il tuo
angelo caprino venga a salvarti?»
L’uomo
rimase immobile come una statua di sale fino a quando Caterina non gli giunse a
non più di un metro di distanza, limitandosi semplicemente ad emettere un
risolino sommesso tra i denti. Poi, veloce come un serpente, gettò via la
torcia e piombò nelle tenebre assieme alla ragazza.
Questa
iniziò ad indietreggiare nel tentativo di raggiungere il fuoco da campo e al
contempo a menare fendenti davanti a se, cercando di colpire alla cieca lo
sconosciuto.
La lama
tagliò soltanto l’aria, dato che della nera figura mascherata non sembrava
esserci più traccia.
Caterina
procedeva camminando lentamente all'indietro, certa che da un momento all'altro
il figlio del demonio le sarebbe saltato addosso con chissà quali orribili
propositi. Sentiva il calore del bivacco farsi sempre più vicino e, quando lo
sentì sparire per un momento, si rese conto troppo tardi della posizione del
nemico.
Prima
che potesse reagire in qualsiasi modo, una mano guantata le si serrò sul polso
e lo torse con delicata decisione. Non le fece male, ma perse lo stesso la
presa sulla spada e questa andò a rintoccare sul marmo.
Subito
dopo un braccio di cuoio emerse dalle tenebre e le saettò sul collo, iniziando
a stringere quanto bastava per tenerla ferma ma non abbastanza per impedirle di
respirare.
Rimasero
immobili così per qualche istante, come abbracciati, lei con il fiato mozzo
dallo choc e lui come pietrificato. Poi la presa attorno al polso si sciolse e
Caterina poté sentire la canna di una pistola che le veniva puntata alla
schiena.
L’uomo
parlò velocemente e con furia, sillabando lettera per lettera direttamente
nell’orecchio della ragazza. «Ho fatto ammenda per i miei peccati dinnanzi al
Signore e ora cammino nella sua luce. Prova ancora una volta ad interrompere la
sua opera su questa terra e giuro che farò schizzare il tuo liquido spinale da
qui fino a Milano.»
Il
braccio attorno al collo si mosse di scatto e, in congiunzione con quello che
reggeva la pistola, spinse Caterina a terra. La ragazza colpì duramente il
marmo e si ritrovò ad osservare lo sconosciuto dal basso verso l’alto.
L’uomo
era in una pozza di luce rossa proveniente dall’esterno, con le fiamme del
bivacco alle spalle che gli conferivano un’aura al contempo eterea e infernale.
I vetrini della maschera brillarono per un momento di cremisi mentre la mano
libera si accingeva ad abbassare il cappuccio, scoprendo una moltitudine di
corti capelli bianchi.
«Sono
Riccardo da Montpellier, Errante della Santa Inquisizione e protettore privato
del Magistro Giacomo da Palermo. Io…»
L’uomo
non riuscì a finire la frase perché un suono stridulo lo interruppe di colpo,
facendo voltare entrambi in direzione dell’entrata più vicina.
Accovacciato
a quattro zampe sulla barricata c’era un anziano signore dai baffi bianchi
incrostati di feci e sangue, con indosso un maglione ridotto in condizioni
pietose e un paio di occhiali senza lenti. I denti erano seghettati e sbucavano
dalle gengive come pali dalla sabbia, formando un’irregolare ammasso di
giallastra disperazione.
Riccardo
sollevò la pistola che fino a qualche istante prima era stata puntata contro
Caterina ed esplose un colpo in direzione della bestia, centrandola nella
mandibola e spedendola a morire oltre il loro campo visivo.
Da fuori
vennero roche urla di giubilo intervallate da bestemmie e volgarità assortite,
mescolate con i ringhi degli indemoniati che si andavano avventando sul
cadavere del proprio simile caduto.
Riccardo
allungò una mano in direzione della ragazza e, gettando uno sguardo alla
barricata, le fece segno di afferrarla.
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