lunedì 25 agosto 2014

Infestissumam - La Galleria

Il disco solare era alto nel cielo, oscurato in un’eterna eclissi cremisi che tingeva le nuvole di scarlatto e gettava lunghe ombre sulle facciate dei palazzi in rovina.
La ragazza poteva sentire l’asfalto tiepido sotto alle piante dei piedi nudi e, di tanto in tanto, anche qualche coraggioso ciuffo d’erba che era riuscito a farsi strada in quella giungla di pietra. Una leggera brezza calda le accarezzava le spalle e sapeva per certo, nei suoi diciannove anni di vita, di non esseri mai sentita più in pace con se stessa come in quel momento.
Stava camminando lungo le vie di una città sconosciuta e dimenticata, dove perfino il vento e il silenzio si aggiravano con circospezione. La ragazza aveva quasi paura di aprire la bocca, nel timore di turbare quell’aura di sacrale abbandono.
Le finestre degli edifici che l’accompagnavano nel suo cammino erano delle mere occhiaie vuote, con le porte scardinate e i tetti sul punto di cedere il passo all’incuria. Oltre le tegole, una bizzarra forma convessa si stagliava contro il cielo infiammato, simile ad una mandorla ma sormontata da una sottile struttura che dava l’idea di essere un gigantesco ago ipodermico. Gli occhi registrarono il tutto ma le gambe si rifiutarono di interrompere la propria marcia, come accade spesso nei sogni più bizzarri o negli incubi più atroci.
Dopo quelle che sembrarono ore, la ragazza giunse nei dintorni di una vetrina sfondata. I segni scuri sull’asfalto e una vecchia automobile ribaltata sembrarono letteralmente ricordare alla ragazza l’avvenimento che aveva ridotto la superficie di vetro in brandelli sbeccati. L’automobilista aveva frenato all’improvviso, perdendo il controllo del mezzo e catapultandolo all’interno dell’esercizio affollato. Diversi elementi di mobilia erano stati spazzati via nell’urto, andando a colpire le pareti e gli esercenti con micidiale precisione.
Ora il veicolo giaceva ancora all’interno del negozio, con l’occupante accartocciato in un mucchio d’ossa contro il parabrezza curiosamente intatto malgrado l’urto. Un’insegna al neon, spenta da chissà quanto, annunciava “Torino Mobili”.
Qualcuno aveva trascinato qualcosa di pesante fuori dalla vetrina in frantumi, lasciando lunghi solchi nella polvere che, alla luce dell’eclissi eterna, sembravano brillare di luce propria. La ragazza, immobile e in balia della brezza, seguì i solchi con lo sguardo fino ad individuare l’oggetto che li aveva causati.
In mezzo alla strada era stata posizionata una vecchia poltrona della nonna, foderata in peluche e con braccioli così imbottiti da assomigliare a golosi cannoli alla crema. Stravaccato sulla poltrona, con fare sornione ed occhi di brace, c’era un bel ragazzo dai capelli biondi. Esibiva un ampio sorriso a trentadue denti, così ampio da sembrare innaturale, e la fissava con sagace curiosità.
La brezza mutò improvvisamente e, proprio mentre la ragazza percepiva per la prima volta una presenza alle proprie spalle, le giunse odore di bruciato e zolfo.
Riprese conoscenza urlando e scalciando, con la testa in panne e gli occhi sgranati.
L’uomo svitò il tappo della borraccia, afferrò un panno moderatamente pulito dalla bisaccia e lo imbevette d’acqua. Poi, sporgendosi in avanti, ammiccò con il capo allo straccio e lo porse alla ragazza.
Questa lo afferrò bruscamente e iniziò a passarselo sul volto, ripulendolo dal sangue secco e dalla sporcizia che le si erano attaccati addosso quando era caduta a terra.
L’acqua era fresca e, ad ogni passata, scopriva le fattezze di quella che aveva tutto l’aspetto di essere una giovane donna. Labbra sottili e zigomi appena accennati affiorarono dal sudiciume come relitti dalle onde del mare in tempesta, seguiti da una fronte ampia e da guance lievemente arrossate. La pelle, rosea come quella di una bambola di porcellana, risaltava in maniera sorprendente con i lunghi capelli corvini che le incorniciavano il viso.
Una volta che ebbe finito con il volto, la ragazza iniziò a ripulire le varie sezioni dell’armatura, accuratamente ordinate sul pavimento e ricoperte anch'esse di sozzura.
L’uomo la fissava, immobile nella sua scocca di cuoio nero e con la maschera da uomo-uccello ancora calcata sul viso.
Entrambi erano seduti in prossimità di un bivacco, riscaldati da un tenue fuoco e con l’enorme caoticità della Galleria a fargli da riparo dal mondo esterno. Dal lucernario frantumato filtravano raggi rossastri, che andavano a posarsi sul ciarpame sparso lungo l’ambiente senza tuttavia riuscire ad illuminarlo nella sua interezza.
«Sai perché questo luogo veniva chiamato Galleria Alberto Sordi?» «
La ragazza trasalì leggermente al suono di quella voce inaspettata e fece di tutto per nascondere la propria sorpresa, rivolgendo un’occhiata disinteressata in direzione dell’uomo e continuando silenziosamente a ripulire il metallo. Era rinvenuta con quei vetrini inquietanti che la fissavano e aveva tutta l’intenzione di procedere con cautela.
La voce continuò malgrado l’assenza di una risposta, dicendo «Un tempo ci fu un grande attore di cinema che rispondeva a quel nome e così i nostri avi pensarono di rendergli omaggio intitolandogli quest’opera architettonica. Sai cos’è, il cinema?»
Ancora una volta, risposero solo l’eco e il rumore del vento proveniente dall’esterno.
«Il cinema era… come posso dire… come un quadro in movimento. Spesso suscitava emozioni forti come la paura o la tristezza, esperienze originali ed interessanti, ma altrettanto spesso era solo spazzatura che non trasmetteva nulla. La gente pagava dei bei soldi per avere il privilegio di poterlo osservare.»
La ragazza, con lo sguardo fisso sui vetrini della maschera in cuoio, lasciò cadere l’ultima sezione dell’armatura ed afferrò la spada. Il panno era ormai sudicio di sangue nero e di sporcizia, ma riuscì comunque a migliorare le condizioni dell’arma e a farla brillare di nuovo. Non aveva la più pallida idea di cosa fossero i soldi o, se è per questo, la paura.
«Vedi, ora il nome di questo luogo è cambiato. Non viene più chiamato Galleria Alberto Sordi, ma Galleria delle Ossa. Sai il perché?»
La spada ritornò silenziosamente nel fodero e venne poggiata con cura di fianco all'armatura. Le labbra sottili come stiletti restarono immobili.
«La chiamano Galleria delle Ossa perché un manipolo di miei confratelli, appena dopo la Tribolazione, cercò di trasformarla in un luogo sicuro, erigendo barricate di metallo con le automobili e benedicendo le entrate con acqua santa ed incenso. Per un breve periodo l’idea funzionò e i rituali sacri riuscirono a tenere lontane le bestie minori, ma il male trovò comunque un modo per passare. Delle creature simili a quelle che ti hanno fatto quel bel bernoccolo decisero che ne avevano avuto abbastanza e sciamarono all'interno, uccidendo e mangiando chiunque gli si parasse davanti.»
L’uomo prese un tizzone dal fuoco e si alzò in piedi, dirigendosi verso una delle zone della Galleria in cui i raggi rossi non riuscivano a far breccia nelle tenebre.
La ragazza non si mosse dal posto e si limitò a seguirlo con lo sguardo, allungando silenziosamente una mano verso la spada e preparandosi a prendere di sorpresa quello sconosciuto.
La fiaccola improvvisata, con il suo lieve alone di luce, riuscì a farsi strada nel buio e rivelò diversi scheletri incastrati tra i rottami di metallo. Le ossa sembravano essere state rosicchiate a fondo e molte erano addirittura spezzate in diversi punti, probabilmente nel tentativo di succhiarne via il midollo.
L’uomo allungò una mano e afferrò uno dei tanti teschi che giacevano nella polvere, sollevandolo in alto come in una pantomima di Shakespeare.
«Queste persone un tempo erano vive. Camminavano, mangiavano, pensavano come faccio io ogni giorno ed ora giacciono qui, dimenticate da tutto e tutti. A quest’ora potevi essere molto più simile a loro che a me, se non fosse stato per il mio intervento» il teschio tornò con cura alla sua posizione originaria e il becco da uomo-uccello si voltò di nuovo in direzione della ragazza «ragazzina, perché ti trovavi nella Galleria delle Ossa, svenuta e in compagnia dei figli del maligno?»
La voce rimbombò senza posa tra le pareti e i ruderi, per poi sfumare nel rumore del vento e nel silenzio. La ragazza continuò a fissare l’uomo in piedi, le sottili labbra strette come una cerniera che aveva tutta l’aria di non volersi sbottonare.
I suoi occhi scuri erano velati da un’aura di intensa sfida e non la smettevano di trafiggere lo sconosciuto come fossero stati lance.
Ogni istante sembrò durare un’eternità fino a quando, non appena il becco da uomo-uccello fece per voltarsi, la ragazza parlò. La sua voce era al contempo grave e melodiosa, con un tono duro ed aspro che contrastava grandemente con la figura da cui proveniva, ma incredibilmente adulta per l’età che l’uomo le aveva attribuito.
«Sono Caterina da Roma, figlia di padre e madre ignoti. Ero alla ricerca di un’Offerta da portare in dono al Magistro dell’Isola Tiberina quando quell'orda di creature è sbucata dal nulla e mi ha tallonata fin dentro questo ossario. Uno di loro deve avermi lanciato un mattone o un sasso in testa, perché a quanto pare sono crollata prima ancora di poter amministrare una giusta punizione a quelle bestie» la ragazza strinse l’impugnatura della spada e, alzandosi in piedi, la sguainò in un lampo d’acciaio «Fortunatamente c’eri tu nelle vicinanze… troppo fortunatamente… sei forse un servitore del demonio, conciato a quel modo?»
L’uomo sollevò le mani oltre la propria testa nella parodia di un criminale colto sul fatto e, con la torcia ancora nel pugno, scosse lentamente il capo a destra e a sinistra. Poteva vedere la propria maschera riflettersi sulla lama mentre questa veniva puntata nella sua direzione.
«E allora perché indossi quell’affare sul volto? Solo i criminali e i servitori del maligno provano gioia nel nascondere il proprio volto al Signore.»
Caterina iniziò ad avvicinarsi con cautela, tenendo l’arma davanti a se e continuando a fissare lo sconosciuto con feroce interesse. Era molto più alto di lei di almeno tutta la testa ed indossava un’armatura di cuoio nero munita di cappuccio, accessorio che la ragazza aveva solamente visto nei disegni che illustravano i testi sacri. Mostravano uomini e donne incappucciati mentre rapivano bambini, si accoppiavano con i demoni e correvano per le strade in preda ad una nera estasi. Molti di essi erano nudi ed intenti a cibarsi dei propri simili, sfoggiando ampi sorrisi di giubilo.
«Ora non parli più? Cosa stai facendo sotto quel cappuccio nero, preghi che il tuo angelo caprino venga a salvarti?»
L’uomo rimase immobile come una statua di sale fino a quando Caterina non gli giunse a non più di un metro di distanza, limitandosi semplicemente ad emettere un risolino sommesso tra i denti. Poi, veloce come un serpente, gettò via la torcia e piombò nelle tenebre assieme alla ragazza.
Questa iniziò ad indietreggiare nel tentativo di raggiungere il fuoco da campo e al contempo a menare fendenti davanti a se, cercando di colpire alla cieca lo sconosciuto.
La lama tagliò soltanto l’aria, dato che della nera figura mascherata non sembrava esserci più traccia.
Caterina procedeva camminando lentamente all'indietro, certa che da un momento all'altro il figlio del demonio le sarebbe saltato addosso con chissà quali orribili propositi. Sentiva il calore del bivacco farsi sempre più vicino e, quando lo sentì sparire per un momento, si rese conto troppo tardi della posizione del nemico.
Prima che potesse reagire in qualsiasi modo, una mano guantata le si serrò sul polso e lo torse con delicata decisione. Non le fece male, ma perse lo stesso la presa sulla spada e questa andò a rintoccare sul marmo.
Subito dopo un braccio di cuoio emerse dalle tenebre e le saettò sul collo, iniziando a stringere quanto bastava per tenerla ferma ma non abbastanza per impedirle di respirare.
Rimasero immobili così per qualche istante, come abbracciati, lei con il fiato mozzo dallo choc e lui come pietrificato. Poi la presa attorno al polso si sciolse e Caterina poté sentire la canna di una pistola che le veniva puntata alla schiena.
L’uomo parlò velocemente e con furia, sillabando lettera per lettera direttamente nell’orecchio della ragazza. «Ho fatto ammenda per i miei peccati dinnanzi al Signore e ora cammino nella sua luce. Prova ancora una volta ad interrompere la sua opera su questa terra e giuro che farò schizzare il tuo liquido spinale da qui fino a Milano.»
Il braccio attorno al collo si mosse di scatto e, in congiunzione con quello che reggeva la pistola, spinse Caterina a terra. La ragazza colpì duramente il marmo e si ritrovò ad osservare lo sconosciuto dal basso verso l’alto.
L’uomo era in una pozza di luce rossa proveniente dall’esterno, con le fiamme del bivacco alle spalle che gli conferivano un’aura al contempo eterea e infernale. I vetrini della maschera brillarono per un momento di cremisi mentre la mano libera si accingeva ad abbassare il cappuccio, scoprendo una moltitudine di corti capelli bianchi.
«Sono Riccardo da Montpellier, Errante della Santa Inquisizione e protettore privato del Magistro Giacomo da Palermo. Io…»
L’uomo non riuscì a finire la frase perché un suono stridulo lo interruppe di colpo, facendo voltare entrambi in direzione dell’entrata più vicina.
Accovacciato a quattro zampe sulla barricata c’era un anziano signore dai baffi bianchi incrostati di feci e sangue, con indosso un maglione ridotto in condizioni pietose e un paio di occhiali senza lenti. I denti erano seghettati e sbucavano dalle gengive come pali dalla sabbia, formando un’irregolare ammasso di giallastra disperazione.
Riccardo sollevò la pistola che fino a qualche istante prima era stata puntata contro Caterina ed esplose un colpo in direzione della bestia, centrandola nella mandibola e spedendola a morire oltre il loro campo visivo.
Da fuori vennero roche urla di giubilo intervallate da bestemmie e volgarità assortite, mescolate con i ringhi degli indemoniati che si andavano avventando sul cadavere del proprio simile caduto.
Riccardo allungò una mano in direzione della ragazza e, gettando uno sguardo alla barricata, le fece segno di afferrarla.

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